Ieri, mentre ero in macchina con Eli, ad un semaforo ci ha affiancato un tamarro.
Finestrino abbassato, braccio sinistro abbandonato lungo la portiera tirata a lucido, ascoltava un brano rap ad altissimo volume. Non appena si è accorto del minimo interesse – be’, interesse non è la parola esatta – che la sua figura suscitava su di noi, ha armeggiato con l’autoradio e ha cambiato brano.
Un secondo più tardi, dai finestrini aperti, ad un volume se possibile ancora maggiore, è uscita una canzone truzza da discoteca così satura di bassi da far sobbalzare la macchina e così oscena da far sobbalzare il mio sensibile animo da rocker.
“Bene così” ho detto.
Eli ha riso.
Poi è scattato il verde. Il tamarro è sgommato via, lasciandosi dietro una scia che sapeva di pneumatico bruciato e – grazie a Dio – anche quella terribile canzone.
“Spiegami in che senso il connubio uomo-macchina attrae le donne” ho chiesto allora ad Eli. “O, almeno, in che modo dovrebbe farlo”.
“Secondo me non funziona”, ha detto Eli. “Di sicuro non nel caso del tamarro e della sua auto”.
Intanto, mi è venuto in mente il dottor T..

Quando lavoravo per il dottor T., con il dottor T. non parlavo praticamente mai.
O meglio, non parlavo di niente che non riguardasse il lavoro.
Quando non era preso dall’ansia di scadenze e consegne che lo rendevano agitato in maniera innaturale, allora il dottor T. poteva anche concedersi qualche parola su argomenti non lavorativi. Se succedeva, si finiva sempre per parlare di automobili e – in particolare – della sua automobile: un’Alfa, rossa fiammante, che aveva trovato usata. “Un affare”, mi aveva detto.

Ogni tanto, per lavoro, eravamo costretti a brevi trasferte. Ci muovevamo quasi sempre con la sua macchina, anche se avremmo potuto prendere un treno. “Ma così rientriamo prima in ufficio”, mi aveva spiegato il dottor T..
La prima volta che ero salito sulla sua auto – sedili in pelle, cruscotto lindo, un sottile profumo di Abre Magique che si spandeva nell’abitacolo, anche se l’Abre Magique, in realtà, non c’era – il dottor T. si era messo a spiegarmi tutte le caratteristiche della sua macchina, con certi virtuosismi da Quattroruote che mi mettevano a disagio e che non sapevo come commentare.
Poi, passate in rassegna le peculiarità del motore, si era dedicato all’illustrazione degli optional. Tra questi, uno in particolare lo rendeva oltremodo orgoglioso: in poche parole, entrato in macchina e inserito un codice sul display dell’autoradio, il suo cellulare veniva preso in gestione dall’auto (immagino che possa esistere un termine tecnico per questo processo, ma ovviamente non lo conoscco, e non mi pare il caso di perdere tempo per fare ricerche). In caso di chiamata il volume dell’autoradio si abbassava, gli squilli passavano attraverso le casse e, premendo un tasto sul volante, poteva parlare direttamente in vivavoce, anche se il telefono era in tasca o infilato nella valigetta.
“Fantastico” avevo commentato io. Anche perchè mi rendevo conto che era l’unico argomento che mi permettesse di partecipare in qualche modo alla conversazione. Non sono mai stato un esperto di motori – proprio per niente – e quel dettaglio mi sembrava alla mia portata.
“Fantastico” avevo ripetuto di nuovo.
“Fantastico. E utilissimo” aveva aggiunto il dottor T..
C’erano altre cose che doveva farmi vedere. Il mio entusiasmo – evidentemente ben simulato – doveva averlo contagiato. Poi eravamo arrivati a destinazione.

Qualche mese più tardi. La trasferta era dovuta ad un corso di aggiornamento.
In macchina, oltre a me e al dottor T., c’era anche L., una quarantenne di bell’aspetto che ricordava in qualche modo Meg Ryan prima che si rovinasse a colpi di interventi chirurgici.
Il dottor T. le aveva aperto la portiera e l’aveva fatta accomodare sul sedile anteriore. Io ero stato confinato sul retro, insieme ai documenti di lavoro.
Procedevamo – rispettando rigorosamente i limiti di velocità – in una mattinata di nebbia.
“Hai caldo? Freddo? Se vuoi posso regolare da qui la temperatura interna” aveva detto il dottor T. a L., premendo un bottone sul cruscotto e mostrandole come bastasse un semplice tocco di dita per alzare o abbassare la temperatura.
“Non c’è bisogno, grazie. Va bene così”, aveva risposto lei.
La radio era sintonizzata su una di quelle stazioni che mandano a rotazione solo grandi successi italiani del passato. Su quella decisione, il dottor T. non aveva chiesto il parere a nessuno.
Massimo Ranieri, Dino, e la mattinata nebbiosa stavano dando i loro effetti: gli occhi mi si chiudevano senza che potessi farci nulla.
“Se vuoi posso metterti il riscaldamento direttamente sul tuo sedile. Sedile riscaldato. Posso fare anche quello, da qui” aveva detto il dottor T. a L..
L. aveva scrollato la testa. “Non c’è bisogno, grazie”.
Il dottor T. aveva stretto la mascella e mi aveva guardato per un attimo dallo specchietto retrovisore. Santo cielo, come mai questa donna non sembra colpita da questa macchina?, sembrava chiedermi la sua espressione stupita.
Avevo guardato fuori dal finestrino, gli occhi a mezz’asta. La nebbia si mangiava i campi che costeggiavano la strada.
“Massimo!” mi aveva risvegliato dopo qualche minuto il dottor T.. Quando era in agitazione ogni tanto sbagliava pure il mio nome. Non lo correggevo nemmeno più. “Massimo” mi aveva chiesto, “è lì dietro il mio cellulare?”.
Si era messo a tastarsi le tasche della giacca e dei pantaloni in maniera melodrammatica, enfatizzando i movimenti.
“Qui dietro non c’è” avevo detto spostando un paio di cartelline piene di documenti. Il dottor T. era un tipo metodico e mi sembrava strano che il cellulare non fosse nella tasca interna della giacca, dove lo metteva sempre.
Il dottor T. si era palpato ancora per un po’.
“Chiamami”, mi aveva detto poi.
L’avevo chiamato con il mio cellulare. La voce di Al Bano era sfumata e uno squillo amplificato si era sparso per l’abitacolo. Il mio nome – corretto, questa volta – era apparso sul display dell’autoradio.
“Ah! Ma allora c’è da qualche parte questo benedetto cellulare!” aveva esclamato sollevato il dottor T.. “Grazie, Massimo, poi lo cerchiamo”.
Si era voltato in direzione di L.. Immagino s’aspettase di trovarla stupita di quel prodigio, ansiosa di chiedere spiegazioni: ma come, il suo cellulare direttamente collegato con l’autoradio?
L. era rimasta perfettamente indifferente.
“Quando entro in macchina”  le aveva spiegato dopo qualche secondo di silenzio il dottor T., “mi basta inserire un codice e il telefono mi passa direttamente in vivavoce, attraverso l’autoradio”. E poi: “Guarda. Massimo, prova a richiamarmi”.
Diosanto, avevo pensato. L’avevo richiamato. Ancora una volta gli squilli – fastidiosi e fuori posto – avevano rotto il silenzio dell’abitacolo.
“Hai sentito?” aveva chiesto il dottor T. a L., indicandole con l’indice prima l’aria circostante e poi il mio nome che scorreva sul display.
“Ah”, aveva risposto L.. Nient’altro.
Il dottor T. non aveva più detto nulla.
Al Bano, intanto, aveva ripreso a cantare: diceva che la felicità è la pioggia che scende dietro le tende, la felicità.

Poi mi addormento. Faccio uno di quei sogni brevissimi in cui entrano parole e rumori e suoni del mondo reale.
Nel sogno, ci sono io che faccio uno squillo nella macchina del dottor T.. L., sul sedile davanti, come di fronte ad una specie di comando, si sfila jeans e mutandine e poggia il suo bel culo sul sedile in pelle. Riscaldato. Il dottor T. sorride soddisfatto.
Mi sveglio di soprassalto, nel momento esatto in cui arriviamo alla sede del seminario.

La sera, riportiamo L.. alla sua auto, poi il dottor T. mi allunga verso il parcheggio dove ho posteggiato la mia modestissima Clio.
Mentre sto per scendere gli arriva una chiamata. D’istinto, il dottor T. recupera il cellulare dalla tasca interna della giacca. Poi si blocca, lo infila nuovamente nella tasca e compone il codice sull’autoradio.
Chiudo la portiera e lo saluto con un cenno.
Mentre riparte, attraverso i finestrini chiusi, sembra che stia parlando da solo.